Nel 1998 incontrai per la prima volta il mio maestro, il prof. José Argüelles. Già professore di Estetica e Storia dell’Arte in diverse università USA, tra cui Princeton – considerata l’istituzione accademica più importante del pianeta; autore di una gran quantità di libri, tradotti in molte lingue; iniziatore del Festival della Terra, che viene celebrato ancor oggi in tutto il mondo ad aprile; fu lui a convocare la prima meditazione globale dell’era moderna, la Convergenza Armonica, nell’agosto 1987, avendo visto – unico al mondo – che le date conclusive di due diverse tradizioni profetiche, quella buddista tibetana del Kalachakra e quella mesoamericana nota come Profezia di Quetzalcoatl o dei 13 Cieli e 9 Inferni coincidevano il 16 e 17 agosto di quel fatidico anno.

Ashram Bhole Baba, Cisternino, ottobre 2009: il prof. José Argüelles tiene un seminario di una settimana, organizzato dal suo traduttore, Antonio Giacchetti, autore di questo articolo

Nel 1994, quando vissi per due anni e mezzo a Miami, fui istigato da un carissimo amico a leggere il best seller di Argüelles, Il Fattore Maya (WIP Edizioni, Bari, 1999). Fui folgorato da quel libro, che considero il punto di non ritorno nella nostra conoscenza di quello straordinario popolo mesoamericano. Fino ad allora le nostre conoscenze sui Maya erano vaghe, lacunose, contraddittorie, fondamentalmente limitate ai testi di Morley, Coe, Thompson, risalenti alla prima metà del secolo scorso.

Morley, autore di The Ancient Maya, pubblicato nel 1946, era un ingegnere civile statunitense finanziato dalla Carnegie Institution. Studiò la scrittura geroglifica Maya e riportò alla luce le principali strutture architettoniche di Chichen Itzà; solo dopo la sua morte si venne a sapere che era a libro paga dello Office of Naval Intelligence, e che svolse attività di spionaggio per conto degli USA; i suoi studi archeologici in Messico e Centro America gli fornivano un’opportuna copertura per il suo lavoro di spia. Già nel 1919 The Nation aveva pubblicato una lettera di protesta del famoso antropologo Franz Boas in cui, senza nominarli, denunciava questi ‘archeologi’ che “avevano prostituito la scienza usandola come copertura per le loro attività spionistiche”.

Thompson, inglese, ufficiale dell’esercito britannico, fu allievo di Morley e finì col superarne la fama, diventando in breve tempo la figura dominante tra gli esperti Maya. Si deve largamente a loro il consolidamento dell’immagine dei Maya come astronomi ossessionati dal tempo e dai calendari (Argüelles afferma che ne usavano diciassette). Anche lui era finanziato dalla Carnegie Institution e concordava con l’opinione di Morley, secondo il quale le inscrizioni Maya erano di natura puramente esoterica e religiosa, prive di elementi storici, fino ai primi anni ‘60, quando gli studi di Tatiana Proskouriakoff sulle stelae di Piedras Negras lo indussero a riconoscere che le sue affermazioni erano “completamente sbagliate”. Famosa anche la sua errata interpretazione della dea Maya Ixchel.

Coe, laureato ad Harvard, è il meno anziano dei tre. Anche lui lavorò per la CIA, durante la guerra di Corea. Scrisse che molti studiosi di talento, come Thompson, impiegarono più tempo nella restaurazione dei siti Maya in vista dello sviluppo turistico dell’area anziché nel campo della ricerca archeologica. Purtroppo alcune delle sue affermazioni più significative non sono nei suoi libri, ma in brevi articoli, o contenute in commenti casuali fatti ai suoi studenti; secondo lui, ad esempio, il Popol Vuh – considerato la bibbia Maya insieme al Chilam Balam – non è che un frammento di una grande mitologia pan-Maya andata perduta, e i governanti del periodo classico Maya erano sciamani, non amministratori.

Un bel quadro, non c’è che dire… Mettici pure che un omonimo connazionale di Thompson, nominato console USA dello Yucatan, acquistò la terra su cui sorge Chichen Itzà e ne saccheggiò le ricchezze, dragando il cenote sul fondo del quale furono rinvenuti manufatti preziosi in quarzo, ossidiana, giada, turchese, oro…

Oro? Ma come, non ci ripetete fino alla noia che i Maya non praticavano la metallurgia, l’estrazione e la lavorazione di metalli? L’oro ha un punto di fusione altissimo; solo il platino fonde a una temperatura più alta – fatta eccezione per i metalli rari. Dunque la metallurgia la praticavano, eccome! L’altro Thompson contrabbandò tutto il ricco bottino negli USA, dove si arricchì vendendo i 30.000 reperti a musei e collezionisti privati, con la complicità di politici e scienziati statunitensi – e se ne vantò in un’intervista.

Avrebbe fatto la stessa fine anche il maestoso giaguaro rosso che funge da trono nel tempio in cima alla Piramide di Quetzalcoatl, già rimosso, impacchettato e pronto all’esportazione, se non fosse stato per l’allarme lanciato da un archeologo austriaco stabilitosi a Chichen Itzà, che evitò l’ennesimo furto.

Così è stato grazie a questi giganti – disonesti, interessati, senza un solido background in storia e antropologia, invariabilmente anglo-statunitensi… – che si è consolidata, nell’inconscio collettivo, l’immagine dei Maya come gente strana, incomprensibile, ossessionata da una gran quantità di cose: il tempo, i calendari, Venere, il Sole, la Luna, le eclissi, i sacrifici umani… Per non dire delle bizzarre consuetudini in materia di modificazione dei tratti somatici: il cranio dolicocefalo, modificato fin dalla nascita per diventare oblungo; lo strabismo indotto nelle bambine; la limatura dei denti e l’inserzione in essi di decorazioni metalliche o pietre preziose – tutte usanze ancora vive, in Messico e Guatemala.

Un popolo misterioso, un enigma indecifrabile – come i suoi geroglifici: da un lato grandi osservatori del cielo, astronomi, matematici, architetti, ingegneri, idraulici, artisti raffinati; dall’altro superstiziosi, rozzi, privi di agricoltura e metallurgia, ignari della ruota e dell’aratro, dediti ad innominabili pratiche religiose, macabre, dolorose, sanguinarie – fino all’aberrazione suprema: i sacrifici umani.

Tutto questo quadro viene radicalmente sconvolto dalle ricerche di Argüelles, culminate nella pubblicazione de Il Fattore Maya. I Maya resuscitano, escono dai libri di storia e archeologia, ricordano a tutti di essere vivi e vegeti, eredi orgogliosi di una tradizione immortale, in possesso di conoscenze inspiegabili e di un ricco corpus di profezie. Lo Tzolkin, il loro calendario sacro, da sempre compreso unicamente come il misterioso calendario rituale, che serviva per determinare le date delle loro orribili, sanguinarie cerimonie, viene fatto letteralmente esplodere, fino a rivelarne l’autentica natura di Modulo Armonico, Rotazione Galattica, Matrice Universale. Ed è in quel libro che viene indicata la data del 21 dicembre 2012 come la Fine del Ciclo, innescando quel revival Maya che senza il libro di Argüelles non ci sarebbe stato – né saremmo qui a condividere queste considerazioni.

Dunque, dopo aver tradotto il libro incontrai Argüelles a Monza il 25 luglio 1998, in un indimenticabile evento intitolato “La rivoluzione del tempo”. Fu allora che gli dissi che gli avrei inviato una mail con alcune domande e che avrei tradotto le sue risposte per pubblicarle nel sito internet che avevo appena realizzato. La prima, prevedibile, ovvia domanda era: Chi erano i Maya?

La sua risposta fu: “Bisogna fare innanzitutto una distinzione tra i Maya archeologici, i Maya dell’antropologia – gli Indigeni Maya – e i Maya Galattici. E occorre anche riconoscere la natura della mente e della civiltà che sono oggi così affascinate dai Maya, e che creano un ‘revival Maya’ a questo punto del proprio ciclo di sviluppo”.

E io che credevo di aver fatto una domanda semplice…

Dunque una cosa sono i Maya archeologici, quelli vissuti in Mesoamerica per almeno un millennio e mezzo, che ci hanno lasciato i loro tesori scientifici, artistici e mistici: piramidi, calendari, matematica, profezie; un’altra cosa sono i Maya antropologici, vale a dire i nativi che ancor oggi portano sangue Maya nelle vene e parlano una delle venti lingue Maya conosciute – lingue, non dialetti. Poi però ci sono quelli che non ti aspetti: i Maya Galattici.

Nessuno, prima di Argüelles, aveva mai parlato dei Maya Galattici. Certo, nel 1968 Eric Von Daniken, precursore ante litteram della teoria degli antichi astronauti, aveva dato una bella scossa al paradigma con il suo “Chariots of the Gods” (“I carri degli Dei”), nel quale definiva l’immagine scolpita sulla lastra che ricopre il sarcofago di Pacal Votan a Palenque (Messico) come “l’astronauta di Palenque”. Ma Argüelles va ben oltre, postulando l’esistenza di una pattuglia di fratelli delle stelle entrata in contatto con gli indigeni della Mesoamerica, che erano stati informati delle straordinarie conoscenze che ancor oggi ci sbalordiscono.

La lastra del sarcofago di Pacal Votan a Palenque

Tuttavia, benché non manchino i ritrovamenti di formidabili reperti – non solo messicani – che confermerebbero l’avvenuto “contatto” fisico (vedi “Messico Alieno”, in Nexus n. 140 e 141), Il Fattore Maya pone l’accento sulla trasmissione della mente galattica Maya, laddove i condizionamenti della nostra mente, determinati da ciò che riteniamo possibile (le difficoltà di viaggi spaziali, il tempo necessario per effettuarli, fino al cosiddetto paradosso di Fermi), ci inducono a credere che un trasferimento di conoscenze da parte dei fratelli delle stelle presupponga una loro presenza fisica sul nostro pianeta.

Maya è il nome della stella più luminosa delle Pleiadi, le sette sorelle, che per qualche ragione si sono guadagnate l’attenzione di tutte le grandi civiltà del passato; sarà forse perché tra di esse vi è Alcione, il sole centrale della nostra galassia, intorno al quale ruotiamo tutti?

Ma Il Fattore Maya introduce il concetto che questa convinzione non è altro che il frutto del condizionamento della mente. Cominciamo col considerare che Maya è dappertutto:

  • in sanscrito, Maya è l’illusione, e il velo di Maya è quello che è calato tra noi e l’autentica realtà, col risultato che non siamo più capaci di distinguerla dall’illusione; e il cercatore di verità deve, per accedere ad essa, squarciare il velo di Maya.
  • Maya era il nome della madre di Buddha, che esattamente come la madre del Cristo ebbe una concezione immacolata – a parte il fatto che Maria ha solo una lettera in più rispetto a Maya.
  • Maya è il nome della stella più luminosa delle Pleiadi, le sette sorelle, che per qualche ragione si sono guadagnate l’attenzione di tutte le grandi civiltà del passato; sarà forse perché tra di esse vi è Alcione, il sole centrale della nostra galassia, intorno al quale ruotiamo tutti?
  • I Maori (o Mayori ?), nativi neozelandesi, hanno un calendario che inizia il 16 giugno, e motivano la scelta di tale data col fatto che quello è il giorno dell’anno in cui la Terra è più vicina alle Pleiadi; nella loro cosmogonia, la Terra faceva parte originariamente di quella costellazione, da cui in seguito si è allontanata, e vedono in quel giorno il punto dell’orbita terrestre nel quale le sette sorelle si avvicinano alla Terra per salutarla. Possiamo solo immaginare lo sconcerto dei nostri astronomi, quando hanno dovuto riconoscere che quello è effettivamente il giorno in cui siamo più vicini alle Pleiadi…
  • Maya è il nome della dea greca della primavera, poi trasferitasi a Roma con lo stesso nome, fino a dare il suo nome al mese della primavera, mayo/maggio.
  • Alcuni studiosi del linguaggio sostengono che maya sia la radice universale di tutte quelle parole e quei concetti che indicano maestria, maestosità, maggiore; dunque la maestria, la mayestas, sarebbe l’essere Maya.

Tenendo in considerazione quanto sopra, appare limitata l’identificazione tra Maya e un popolo che associamo a determinate coordinate storiche e geografiche, spazio/temporali. A ben vedere, Maya è una frequenza, una visione, uno stato di consapevolezza non ordinario. E chi condivide quella visione, chi si sintonizza su quella frequenza, chi accede a quello stato di consapevolezza è Maya, non meno di quanto lo sia stato Pacal Votan.

Dunque non è stato necessario che Pleiadiani o Arturiani o Siriani si imbarcassero in viaggi spaziali la cui durata (stimata in base a ciò che noi riteniamo possibile) ci fa trasalire. È stato sufficiente che alcuni – non necessariamente molti – nativi siano riusciti a sintonizzarsi su quella frequenza per ricevere informazione. Una trasmissione mentale alla quale ci si sintonizza in modo non tanto diverso da quando ascoltiamo una stazione radio; cosa facciamo realmente? Ci sintonizziamo sulla frequenza che ci permette di ricevere quel canale.

“Siamo campi elettromagnetici viventi che nuotano in un oceano elettromagnetico, ricevendo ed emanando frequenze.

“WINCLIL: essere umano. WINC: tubero, radice; LIL: vibratorio. (Pertanto) umano = radice o risonatore vibratorio cosmico.”

José Argüelles, Il Fattore Maya

Fermo restando che ognuno è libero di pensare a sé stesso come gli pare, per i Maya un essere umano è un tubero che vibra, una patata con l’antenna. Il sottotitolo de Il Fattore Maya è “La via al di là della tecnologia”, laddove la via al di là della tecnologia siamo noi. Nell’intervista del ’98, Argüelles scrive:

Il mio lavoro di ricerca e quello di altri… inducono a considerare i Maya come una razza di origini galattiche, se non geneticamente, almeno in termini di tipo e livello di conoscenze, codificate nell’architettura e nei glifi dell’Età Classica.

Un altro modo in cui ribadì il concetto, in un suo seminario, fu questo: noi diciamo che questa matemagica, questi codici, queste conoscenze sono Maya; ma sarebbe come dire che l’elettricità è statunitense. Per quanto sia vero che l’essere umano che l’ha scoperta, studiata, utilizzata – e brevettata – fosse di nazionalità USA, questo non indurrebbe nessuno a fare una simile, ridicola affermazione: la nazionalità di chi l’ha scoperta non sposta di una virgola il fatto che l’elettricità è una forza cosmica, universale, che esiste e agisce in ogni angolo del sistema nel suo insieme.

Allo stesso modo, le straordinarie conoscenze che sono arrivate fino a noi grazie ai Maya non sono ascrivibili ad una etnia della Mesoamerica, bensì sono di natura universale. Ai Maya va riconosciuto il merito innegabile di aver saputo ricevere quelle conoscenze ed essere riusciti a farle arrivare fino a noi (scolpendole sulle pietre, poiché evidentemente sospettavano – o sapevano? – che i loro libri sarebbero finiti arrostiti o nei chilometri di biblioteche segrete del Vaticano…), e questo guadagna loro tutta la nostra riconoscenza e gratitudine.

È questo che fa di noi Maya Galattici: condividere queste conoscenze, compartecipare a questa visione, sintonizzarci su questa frequenza; usare la notazione punto/barra invece dei numeri arabi, studiare la matematica vigesimale (che genera la progressione binaria, senza la quale non avremmo l’informatica…) anziché quella decimale, cambiare calendario – bruciando quello strumento occulto di potere dei falsi sacerdoti e dei signori della guerra ed entrando in sincronia con i cicli planetari, galattici ed universali – non sono vezzi new age, perché siamo più fighi noi di quelli contagiati dal pecoronavirus.

È un modo per sottrarci sempre più alla frequenza del tempo artificiale; per spezzare l’incantesimo che ci fa credere che tempo è denaro, che lo standard per la risoluzione dei conflitti è la guerra e che i bambini muoiono di fame e noi non possiamo farci niente; per risvegliarsi dal sonno ipnotico in cui siamo caduti cinquemila anni fa e ricordare chi siamo veramente, e cosa siamo venuti a fare quaggiù. Per riprendere nelle nostre mani il nostro destino e tornare ad esercitare consapevolmente la nostra funzione di co-creatori.

In Lak’ech (io sono un altro te stesso)

Cisternino (BR), 16 novembre 2021 Kin 77, Terra Cristallo Rossa