La vera consapevolezza, come ci insegna la più autentica Filosofia, la dobbiamo – e la possiamo – trovare dentro di noi. «Sarebbe davvero bello, Agatone, – scriveva Platone nel Simposio – se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, quando ci mettiamo in contatto l’uno con l’altro, come l’acqua che scorre nelle coppe attraverso un filo di lana da quella più piena a quella più vuota». Sì, sarebbe bello, ma – come ha osservato magistralmente Moreno Neri in un suo articolo[1], sappiamo che non è così. La sapienza non si trasmette come un fluido, non si separa da chi la concepisce. È un’esperienza personale che si può solo vivere e non è possibile travasarla bella e pronta, meccanicamente. Occorre una grande motivazione interiore, uno sforzo individuale unito a un’inesauribile passione per il dialogo tra persona e persona. Occorre l’avvio di una comunicazione filosofico-maieutica attraverso un serrato metodo dialettico.
Socrate, Maestro di Platone, insegnò al suo discepolo proprio l’arte della Maieutica, che Platone seppe poi utilizzare al meglio nei suoi dialoghi filosofici. Ma pochi, oggi, tendono a ricordarsi che maieutiké in Greco antico significa letteralmente “ostetricia”. Questo metodo, infatti, nelle intenzioni di Socrate, intendeva incarnare un’azione analoga a quella dell’ostetrica. Egli, infatti, non aveva la pretesa di insegnare alcunché, né tantomeno di immettere delle verità nell’animo delle persone. Intendeva, semmai, portarle a far partorire delle verità dalle loro menti. Non lanciava programmi di redenzione e non pretendeva di trascinarsi torme di seguaci, perché era consapevole che la Conoscenza può solo sgorgare dal profondo di noi stessi, dai recessi della nostra anima. La Maieutica, attraverso il dialogo ed il confronto, si limita ad orientare il pensiero dell’interlocutore fino a far sì che questi estrapoli la verità da dentro di sé, che la “partorisca”, appunto. E questo, come ci insegnava il grande Parmenide, può essere possibile attivando il nóos, l’intuizione, che è la vera parola magica della quale dovremmo tutti dotarci.
Intuire, secondo Parmenide, era di fatto un sinonimo di “essere”: «…una stessa cosa, intuire ed essere», recita un frammento citato e commentato da Marco Della Luna nel suo saggio Farsi luce[2]. Secondo l’insegnamento di questo grande Filosofo ed Iniziato dell’antichità, il nóos rappresenta l’organo – umano e divino – di percezione della continuità-unità di tò eón (e infatti noein significava originariamente l’intuizione), perché di fatto esclude il processo di differenziazione proprio del pensiero razionale fondato sui principi di identità e non contraddizione. L’intuizione coglie quindi la omogeneità di tutte le cose al tò eón, perché tutte le cose, come gli rivelò quella Daímon che sola può attraversare l’imperscrutabile porta delle vie della Notte e del Giorno, ineriscono a Esso.
La Maieutica, quindi, se ben associata all’intuizione, ci porta effettivamente a farci luce, ad accendere quella luce interiore che ci permette di scorgere dentro di noi la Verità, quella “superverità” che abbraccia in sé verità (alétheia) e opinione (dóxa), che ci permette di distinguere tra «le cose apparenti» che riverberano la a-létheia (letteralmente la realtà non-celata) e le false opinioni dei mortali in cui non è vera certezza.
Proprio a questo duplice processo introduce la celebre allegoria iniziatica della caverna, esposta da Platone nel VII° libro della Repubblica:
«Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata tuttavia aperta alla luce e ampia quanto tutta la sua larghezza, pensa di vedere degli uomini che vi sono tenuti prigionieri fin da fanciulli, legati da catene che serrano loro le gambe e il collo, tanto da non potersi muovere e da dover guardare soltanto in avanti, incapaci a causa della catena di voltare il capo. Alle loro spalle brilla in lontananza un fuoco, tra il quale e i prigionieri corre rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere un muricciolo, come quei teloni che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. (…) Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate. E, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. (…) Somigliano a noi! Credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? E come possono, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita? E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?»[3].
Partendo da questo preambolo, Platone, utilizzando il suo Maestro Socrate come narratore in un immaginario dialogo con il fratello Glaucone, sviluppa ed espone non solo una delle più importanti metafore filosofiche del pensiero occidentale, ma anche uno dei più grandi segreti iniziatici.
Come abbiamo visto, i prigionieri che Platone immagina all’interno della caverna, non solo si trovano lì sin dall’infanzia (o dalla nascita), ma si ritrovano ad avere le membra, la testa e il collo immobilizzati, in modo che i loro occhi possano guardare sempre in un’unica direzione, quella del muro che si pone dinanzi a loro. Lungo la strada rialzata che Platone immagina correre fra i prigionieri e un fuoco posto alle loro spalle, alcuni uomini (questi, si badi bene, liberi di muoversi), trasportano in continuazione oggetti di varie forme e dimensioni, certe volte parlando tra di loro, altre rimanendo in silenzio. Le forme di questi oggetti che trasportati proiettano le loro ombre sul muro verso il quale sono rivolti gli sguardi dei prigionieri e, quando i trasportatori parlano tra loro, essi vengono indotti a pensare, per via dell’eco che si amplifica nella caverna, che le voci siano emesse da quelle stesse ombre che vedono passare sul muro, su quella barriera che li separa dalla verità, dalla consapevolezza. Se, infatti, un personaggio esterno e libero di muoversi a suo piacimento avrebbe un’idea completa della situazione, i prigionieri, ignari di ciò che realmente accade alle proprie spalle e intorno a loro, sono portati a interpretare le “ombre parlanti” proiettate davanti a loro come soggetti reali.
Andando avanti con il suo dialogo, Platone pone l’ipotesi che un prigioniero venga liberato dalle catene e venga costretto a rimanere in piedi, con la faccia rivolta verso l’uscita della caverna. Inizialmente i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del Sole, a tal punto da provocargli dolore e shock. Inoltre, quelle forme trasportate dagli uomini lungo il muretto gli sembrerebbero meno “reali” delle ombre alle quali è sempre stato abituato, al punto che, anche se gli venissero mostrati da vicino quegli oggetti nel loro reale aspetto e gli fosse indicata la fonte di luce, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo e provando fastidio nel fissare sia il fuoco che la luce solare esterna, Platone immagina che preferirebbe tornare a volgersi verso le ombre.
Allo stesso modo, secondo Platone, se il malcapitato prigioniero fosse costretto a uscire dalla caverna e venisse esposto alla luce diretta del Sole, rimarrebbe accecato, proverebbe terrore, o quantomeno un forte senso di disagio, e si irriterebbe per essere stato trascinato via a forza da quell’unico luogo che conosceva e in cui riponeva (o credeva di riporre) tutte le sue certezze e le sue sicurezze: la sua illusoria comfort zone. Ipotizzando però che il prigioniero, spinto dalla curiosità o da un naturale istinto, una naturale propensione alla conoscenza, si faccia coraggio e decida di adattarsi alla nuova situazione, avrebbe inizialmente solo un quadro confuso delle cose e riuscirà a malapena soltanto a distinguere le ombre delle persone intorno a lui o le loro immagini riflesse nell’acqua. Solo con il passare del tempo potrebbe riuscire a sostenere la luce e a posare lo sguardo sulla reale forma degli oggetti e delle persone. Successivamente, egli potrebbe, di notte, volgere il suo sguardo al cielo, riuscendo ad ammirare i corpi celesti con maggiore facilità che di giorno. Infine, il prigioniero liberato sarebbe capace di volgere il suo sguardo direttamente al Sole, invece che sul suo riflesso proiettato sull’acqua, e capirebbe che
«è esso a produrre le stagioni e gli anni, e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa di tutto quello che lui e i suoi compagni vedevano»[4].
La sapienza non si trasmette come un fluido, non si separa da chi la concepisce. È un’esperienza personale che si può solo vivere e non è possibile travasarla bella e pronta, meccanicamente. Occorre una grande motivazione interiore, uno sforzo individuale unito a un’inesauribile passione per il dialogo tra persona e persona. Occorre l’avvio di una comunicazione filosofico-maieutica attraverso un serrato metodo dialettico.
Resosi conto della situazione, aperti finalmente gli occhi sulla realtà delle cose, il prigioniero ormai liberato vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna per liberare i suoi compagni e per renderli partecipi del suo affrancamento, della sua presa di coscienza. È infatti felice del cambiamento e prova nei confronti dei suoi simili ancora segregati nella caverna un forte senso di pietà e di empatia. Si rende però conto che convincere gli altri prigionieri ad essere liberati sarà tutt’altro che facile. Dovendo riabituare gli occhi alla penombra, avrebbe bisogno di tempo prima di riuscire a vedere distintamente anche nel fondo della caverna, e durante questo periodo diverrebbe sicuramente oggetto di scherno da parte dei prigionieri:
«Non sarebbe egli allora oggetto di riso? E non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andare su?»[5].
Addirittura, prosegue Platone, la sua opera di convincimento o il suo tentativo di liberare gli altri prigionieri per portarli verso la luce, potrebbe spingere questi addirittura ad ucciderlo.
Secondo il Filosofo, l’umanità può essere ben assimilabile a quei prigionieri segregati nel fondo della caverna e il mondo conoscibile o comprensibile dagli uomini con l’uso limitato della loro vista può ben essere paragonabile a quella oscura prigione. L’ascesa e la contemplazione del mondo superiore, che sarebbe a portata di mano, come la piena consapevolezza di esso che può essere raggiunta con la luce dell’Iniziazione, non è però da tutti ambita e ricercata, come dimostra questo esemplare dialogo platonico. E chi la acquisisce, come egli, vede inevitabilmente il mondo con occhi diversi, avendo compreso la sua reale natura, viene spesso a sua volta visto dai propri simili come un “diverso”, e la diffidenza spesso si tramuta in aperta ostilità se un Iniziato tenta di indirizzare i propri simili verso la luce dell’Iniziazione e della Consapevolezza.
Nella stragrande maggioranza degli esseri umani, ottenebrati da millenni di schiavitù contro-iniziatica, il solo pensiero di un’ascesa nel mondo superiore genera incomprensione, quando non addirittura spavento e sgomento, perché in fondo essi si sentono felici e si illudono di essere protetti nel buio quotidiano della loro caverna, mentre i loro occhi sono ingannati da confuse ombre che i “guardiani” proiettano sul muro bianco delle loro menti. È molto più facile, infatti, non porsi domande e vivere con illusoria serenità la propria Matrix quotidiana.
Se il sommo Filosofo ed Iniziato ateniese tornasse oggi a vivere fra noi, oltre ad essere sicuramente preso dal più profondo sconcerto per l’enorme involuzione sociale, morale e religiosa che si troverebbe a dover affrontare, mi piace pensare che sarebbe spinto a scrivere un nuovo dialogo e ad incentrarlo su un esperimento condotto nel 1966 dallo scienziato americano Gordon Stephenson del Dipartimento di Zoologia dell’Università del Wisconsin. In questo esperimento sullo studio del comportamento animale, cinque scimmie Rhesus (un macaco di origine asiatica) furono messe all’interno di una gabbia con una scala in cima alla quale c’era un casco di banane. Alla vista di queste, una delle scimmie si arrampicò sulla scala per raggiungerle, ma, appena lo fece, lo sperimentatore le spruzzò addosso dell’acqua gelida. La stessa sorte toccò poi, a ruota, alle altre quattro scimmie. Il deterrente dell’acqua fredda riuscì a inibire il comportamento innato dei macachi solo per un certo periodo, e si riaccese presto nelle creature il desiderio di cibarsi delle banane poste in cima alla scala. Un’altra delle scimmie, infatti, tentò di salire sulla scala, ma venne prontamente ricacciata indietro dallo sperimentatore con un potente getto d’acqua fredda. E così si ripetette, fino a che non vi fu una svolta inaspettata: quando una delle scimmie provò ad arrampicarsi per prendere le banane, le altre la bloccarono, malmenandola. Da quel momento le cinque scimmie non provarono più a raggiungere il casco di banane.
L’esperimento proseguì entrando in una seconda fase: venne introdotto nella gabbia un nuovo macaco al posto di uno dei cinque originari. Non appena la nuova scimmia arrivata si accorse delle banane e tentò di raggiungerle, le altre, memori dell’esito dei precedenti loro tentativi, la obbligarono a scendere dalla scala e la picchiarono. Alla fine anche la nuova arrivata rinunciò così a mangiare le banane, e lo fece senza fare l’esperienza dell’acqua gelata, quindi senza sapere perché non potesse farlo.
A questo punto dell’esperimento venne sostituita un’altra scimmia delle quattro originarie rimaste. Il nuovo gruppo si presentava così composto dalle tre scimmie iniziali, che sapevano il motivo per cui non dovevano tentare di prendere le banane, una scimmia che aveva imparato a rinunciare alle banane a causa della reazione violenta delle sue compagne, e una nuova scimmia ignara di tutto. Come previsto, la nuova arrivata tentò di raggiungere le banane, ma le sue compagne prontamente glielo impedirono, persino quella che non aveva fatto l’esperienza dell’acqua gelida.
L’esperimento si avviò alla conclusione con la progressiva sostituzione di tutte le cinque scimmie originarie, fino a che restarono nella gabbia cinque nuove scimmie a cui non fu mai spruzzata l’acqua. E quando anche l’ultima arrivata di queste tentò di raggiungere le banane, tutte le altre glielo impedirono violentemente, anche se nessuna di esse era a conoscenza dell’iniziale motivo del divieto.
In sintesi, al di là della mera sperimentazione zoologica, questo test di Gordon Stephenson ci insegna che il mondo animale non è che un fedele specchio di quello umano, e che quando una regola dogmaticamente imposta (l’esempio include ovviamente anche i dogmi religiosi) viene tramandata da una generazione all’altra, si arriva al punto in cui le generazioni successive smettono di porsi domande e si adeguano supinamente al costume o alla credenza sociale o religiosa, per quanto assurda, illogica o tirannica essa possa essere. Ed è in questo modo, se ci riflettiamo, che hanno potuto trionfare ed affermarsi la cultura patriarcale, la religione Olimpica, quella Dionisiaca, la blasfemia monoteistica amarniana di Amenofis IV°, noto anche come Akhenaton, e, sulla scia di quest’ultima, l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam, tutte operazioni di natura contro-iniziatica finalizzate al controllo sociale e all’impedimento di una reale elevazione del genere umano. Elevazione che è molto temuta dai controllori e dai gestori della “matrix”, sempre all’erta per impedire (ieri con la distruzione dei Templi, delle Biblioteche e con i roghi dell’Inquisizione, oggi con metodi solo apparentemente più “soft”) che gli uomini non si facciano domande, e per far sì che non tentino di uscire dalla caverna o di raggiungere il casco di banane all’interno della loro gabbia, allo stesso modo in cui a Adamo ed Eva venne intimato da Yahweh di non mangiare il frutto proibito dell’Albero della Conoscenza.
Mi sono servito di questo lungo preambolo, in cui ho menzionato e posto a confronto, invitando così il lettore ad un’attenta riflessione, l’allegoria della Caverna di Platone e l’esperimento di Gordon Stephenson, con il preciso fine di focalizzare l’attenzione sul rapporto fra Filosofia e Conoscenza Iniziatica, o, se preferite, fra Filosofia e Tradizione Misterica (e, conseguentemente, fra Filosofia e Consapevolezza).
Nel mondo classico e nell’antichità pre-cristiana l’uomo era più vicino agli Dei e, al contempo – in un reale scambio e connubio – gli Dei erano più vicini all’uomo. E proprio dagli Dei gli uomini avevano ricevuto precisi insegnamenti, regole e dottrine e le risposte ai più grandi quesiti che l’umanità, sin dalla sua uscita dalle caverne, aveva iniziato a porsi: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
Il termine Filosofia (Φιλοσοφία), che in Greco antico si compone da φιλεῖν (phileîn), “amare”, e σοφία (sophía), “sapienza”, significa letteralmente “amore per la sapienza”.
I moderni dizionari e le enciclopedie definiscono concordemente la Filosofia una disciplina e al contempo un campo di studi che si pone domande e riflessioni sul mondo e sull’uomo, indaga sul senso dell’essere e dell’esistenza umana, tenta di definire la natura e si occupa dei limiti e delle possibilità della conoscenza. Ma, come spiega Marco Della Luna in Farsi Luce, prima ancora che indagine speculativa, la Filosofia è stata una disciplina capace di assumere anche i caratteri della conduzione di un determinato “modo di vita”, ad esempio nell’applicazione concreta dei principi desunti attraverso la riflessione e il pensiero, e in questa forma la si fa sorgere, ne si collocano le origini ed i fondamenti, proprio nell’antica Grecia. Ma a rendere arduo formulare una definizione univoca della Filosofia concorse il dissenso (ancora oggi tutt’altro che risolto) tra i suoi protagonisti ed artefici (i Filosofi) sull’oggetto stesso di tale disciplina. Un falso problema, questo, perché, se andiamo all’origine, i più antichi Filosofi non ponevano una netta linea di demarcazione fra Philo-Sophia e Sapere Sacro. E, come giustamente sottolineava Victor Magnien, «la Filosofia greca deriva dai Misteri, almeno secondo l’opinione degli stessi Greci»[6].
La semplice traduzione dal termine greco (“amore per la sapienza”) non sarebbe certo di per sé sufficiente a rendere l’idea di cosa sia stata e di come venisse intesa e percepita la Filosofia nell’antico mondo ellenico anche perché il significato che il termine poteva rivestire in un contesto culturale, quello dell’antichità classica, in cui – come abbiamo detto – l’uomo era più vicino agli Dei e gli Dei erano più vicini all’uomo, si distanzia enormemente dai significati e dalle interpretazioni che della Filosofia sono stati dati nelle epoche successive, dal Medio Evo all’Età Moderna, caratterizzate da ambiti sia socio-economici che cultural-religiosi completamente diversi.
Ma la Filosofia greca, sia che la intendiamo come Sapere Sacro e amore per la Divina Sapienza, che come scuola di vita e palestra di riflessione, meditazione, introspezione ed elevazione, a differenza di specie ormai estinte come l’Homo Erectus o l’Homo Neanderthalensis, è tutt’altro che appartenente al passato. Essa è tutt’oggi viva e pulsante e, nonostante i pesanti ed innegabili condizionamenti sociali dovuti a duemila anni di Cristianesimo che ne hanno alterato parte della natura e del messaggio intrinseco, continua a costituire la base stessa della nostra forma mentis e del nostro bagaglio culturale.
Nella stragrande maggioranza degli esseri umani, ottenebrati da millenni di schiavitù contro-iniziatica, il solo pensiero di un’ascesa nel mondo superiore genera incomprensione, quando non addirittura spavento e sgomento, perché in fondo essi si sentono felici e si illudono di essere protetti nel buio quotidiano della loro caverna, mentre i loro occhi sono ingannati da confuse ombre che i “guardiani” proiettano sul muro bianco delle loro menti. È molto più facile, infatti, non porsi domande e vivere con illusoria serenità la propria Matrix quotidiana.
Giorgio Giacometti, nel suo saggio Meditare Plotino, afferma che
«in ciò siamo soccorsi dagli stessi testi antichi che per aiutare la concentrazione passano di punto di vista in punto di vista (donde l’apparenza in essi della contraddizione e dell’eclettismo)» e che «a tale soccorso dobbiamo aggiungere quello di testi e maestri moderni che ci forniscano la chiave di lettura e di meditazione di questi scritti»[7].
Ma è semmai, dal mio punto di vista, l’esatto contrario. Nessun autore, nessun filologo o nessun sedicente “filosofo” moderno potrà mai fornirci le corrette chiavi di lettura della Philo-Sophia antica, e in particolare di quella platonica e neoplatonica. Tali chiavi di lettura, a meno che non ci si accontenti degli aspetti più esteriori (dell’involucro, potremmo dire), le si raggiungono in soli due modi: attraverso un’Iniziazione misterica e il relativo processo graduale di elevazione/apprendimento sotto l’attenta guida di un Mystagogo, o, in maniera profana (e quindi necessariamente incompleta o parziale), attraverso una prolungata e faticosa attenta lettura dei testi dei Maestri del passato, accompagnata da una propedeutica ma indispensabile spoliazione catartica di ogni pregiudizio preconcetto dettato dai condizionamenti socio-culturali e religiosi del mondo contemporaneo.
Giacometti, nel suo sovracitato saggio, rifacendosi agli studi del filosofo e teologo francese Pierre Hadot – e in particolare al saggio di quest’ultimo intitolato Esercizi spirituali e Filosofia antica[8] – evidenzia molto, come abbiamo visto, il ruolo della Filosofia come ασκησις, cioè come esercizio o meditazione. Ci ricorda infatti come Hadot, muovendosi dalla considerazione di quanto la Filosofia antica interpretasse sé stessa come esercizio, sia arrivato a comprendere quanto la Tradizione antica continui a vivere in noi, per lo più inconsapevolmente (come potenza o latenza) e quanto essa possa parlare al disagio dell’uomo contemporaneo sicuramente più e meglio di altre Tradizioni, ivi comprese quella Cristiana e quelle orientali.
Sotto questo profilo, sulla base degli studi di Hadot, la Filosofia si presenta innanzitutto come arte del vivere, o come arte di vita e di morte, o, se vogliamo essere ancora più precisi, come arte del saper vivere e del saper morire. E non è certo una casualità il fatto che una simile definizione sia per eccellenza la medesima della Tradizione misterica, e di quella Eleusina in particolare, come spiego in vari miei saggi, in particolare in Nei penetrali del Tempio: il rapporto tra Filosofia e Tradizione Misterica[9].
Già nel 1928 il noto teosofo ed esoterista olandese Johannes Jacobus Van der Leeuw, nel suo celebre saggio The Conquest of illusion[10], ci ricordava come la Filosofia debba essere intesa soprattutto come ricerca della vita e che essa è più che amore per la saggezza, a meno che non intendiamo per saggezza qualcosa di diverso dal sapere. Secondo Van der Leeuw, la stessa saggezza è conoscenza ed esperienza, e perciò è vita. E la ricerca della saggezza deve quindi essere intesa anche come ricerca della vita. Ma la vera Filosofia non deve limitarsi ad essere una mera soluzione intellettuale dei problemi. Nelle parole di Platone la Filosofia nasce dalla meraviglia, ed il vero Filosofo è colui che continua a meravigliarsi della vita, che non cessa mai di farlo, non colui che è certo di aver risolto ciò che sta al di là di ogni soluzione. È profondamente vero, quindi, come ci insegna Van der Leeuw, che finché non siamo in grado di vedere le meraviglie della vita intorno a noi, a meno di non vederci come avvolti in un mistero che sfida la nostra audace esplorazione, non siamo ancora sull’autentico sentiero della Filosofia.
Come ci spiega sempre Van der Leeuw, l’uomo non risvegliato conosce solo i fatti, non conosce misteri; per lui le cose si spiegano da sole; il mondo esiste, cosa altro c’è da sapere? Ma questo è un modo di vedere animale; per una mente bovina il pascolo può essere buono o cattivo, e non c’è bisogno di spiegazioni. E quindi l’uomo non risvegliato si accontenta dei fatti dell’esistenza: l’ambiente che lo circonda, il cibo, il lavoro, la famiglia e gli amici sono altrettanti “fatti” che lo circondano, fatti piacevoli o spiacevoli, ma che non hanno per lui mai apparente bisogno di essere spiegati. Parlargli di un mistero celato nella sua vita e nel suo mondo potrebbe sembrare cosa vana e non avrebbe alcun senso; egli vive, e il semplice fatto di vivere gli basta. La morte e la vita stesse possono per un momento infondergli un senso di ansia o di gioia, ma anche in tale caso non risvegliano in lui alcuna curiosità: sono in fondo per lui cose familiari e abituali. Ed è proprio questa apparente familiarità alla vita che cela il suo mistero alla mente animale.
L’uomo non risvegliato così mirabilmente descrittoci da Van der Leeuw rappresenta purtroppo oggi, a differenza che nell’antichità – quando, come abbiamo detto, in un reale scambio e connubio l’uomo era più vicino agli Dei e gli Dei più vicini all’uomo e assai maggiore era il livello di consapevolezza – più una regola che l’eccezione. Buona parte dell’umanità è oggi assimilabile ai protagonisti dell’allegoria della caverna spiegataci da Platone nella Repubblica e che abbiamo rivisitato in apertura. E la Filosofia, l’autentica Philo-Sophia, può, oggi più che mai, – a differenza delle imperanti religioni monoteistiche fondate sul dogmatismo e sulla logica “del bastone e della carota” – rappresentare per tanti di questi uomini un raggio di luce capace di squarciare le tenebre in cui sono avvolti e contribuire così al loro risveglio (per quanto traumatico esso possa essere) e al loro cammino sul sentiero della Consapevolezza.
[1] Moreno Neri: Contro le fallacie della comunicazione politica. In L’Acacia n. 2, 2017.
[2] Marco Della Luna: Farsi luce. Ed. Teseo, Frosinone 2020.
[3] Platone: Repubblica, libro VII°.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Victor Magnien: I Misteri di Eleusi. Ed. di Ar, Padova 1996.
[7] Giorgio Giacometti: Meditare Plotino. Saggio disponibile in rete sul sito www.esonet. org. nella sezione Studi Tradizionali.
[8] Pierre Hadot: Esercizi spirituali e Filosofia antica. Ed. Einaudi, Torino 2005.
[9] Nicola Bizzi: Nei penetrali del Tempio: il rapporto tra Filosofia e Tradizione Misterica. Ed. Aurora Boreale, Firenze 2022.
[10] Johannes Jacobus Van der Leeuw: The conquest of illusion. Ed. A.A. Knopf, New York 1928. Pubblicato in Italia con il titolo La conquista dell’Illusione (ed. Astrolabio, Roma 1968).